Il sapere oggi è un rischio: illudersi di possederlo
La post modernità ha lasciato il posto all’era ipermoderna sempre più caratterizzata da una modalità martellante di accesso alle informazioni, ai dati del sapere, a prodotti mediatici in genere. È un tempo questo che si caratterizza anche per un’alta esposizione alla paura e alla rabbia. Come terapeuti interveniamo sempre più di frequente sulle ferite provocate da relazioni, reali e virtuali, aggressive. Lavoriamo su nuovi sintomi e nuove forme di disagio che trovano nel corpo una loro incarnazione.
Il concetto stesso di esistenza sta cambiando. È frequente percepirsi come disconessi dal proprio mondo interno, cioè con difficoltà nel sapersi definire emotivamente, mentre, assorbiamo, in quanto on line tutto quello che, alla frazione di secondo, capita nel mondo. Abitiamo il caos informazionale; anzi in esso siamo immersi senza la consapevolezza dello starci dentro. Il nuovo habitat rappresenta, oramai, un prolungamento di mondo a cui non è possibile sottrarci, ma da cui dobbiamo anche imparare a tutelarci.
L’accesso continuo al sapere non è, in questo senso sempre volontario, né relazionale in senso stretto. Andare in biblioteca, consultare e rapportarsi ad un testo impone, ancora oggi, un atto volontario che va a modificare, sensibilmente il grado di sapere personale su una tematica precisa.
Nel contesto in cui viviamo, invece, la relazione tra l’uomo e le fonti del sapere è indiretta, manipolata per fini ideologici, economici, pseudoculturali e spessissimo non tracciabile, perché trasmessa secondo flussi informativi, in cui contenuti umani e strumenti ingegneristici, si fondono fino a creare le cosiddette bolle di filtraggio. Nelle bolle è possibile trovare informazioni di rinforzo alle nostre opinioni, piuttosto che dati alternativi e differenti, per fondare nuove conoscenze. Tutto ciò penalizza il nostro sapere reso, in tal modo, meno critico e più massificato.
La formazione dei giudizi risulta, più veloce ma meno mediata cognitivamente, mentre i comportamenti dell’utenza che si basano su giudizi di questa fattezza, tendono a trasformarsi facilmente in comportamenti non mentalizzati, cioè in reazioni. E poiché ci esponiamo a lungo al mondo della rete e dei media in genere, in ogni istante veniamo attraversati (e non toccati come avviene nelle relazioni interpersonali) e contagiati dall’ emotività che circola sul web. Tutto ciò crea una sorta di reazione istintiva che può farci sentire in un certo modo e/o anche in antitesi, con ciò che pensiamo davvero: spaventati oltre misura o arrabbiati senza basi concrete per esserlo.
Il contagio emotivo può cambiare, infatti, la nostra percezione della realtà e di conseguenza la nostra vita nel mondo reale: quello che scegliamo di fare, come acquistare, come orientarci nel mondo e il modo stesso in cui guardiamo gli altri. La realtà ci viene proposta molto mediata da immagini, da titoli sensazionalistici, da scoop, da apparire tanto convincente e assodata da non meritare l’esercizio del dubbio.
Un altro punto da considerare riguarda gli effetti sulle persone di tali forme di comunicazione rappresentazionale di cui singoli, gruppi, enti ed istituzioni si avvalgono. Non sembra più tanto importante comunicare ciò che si fa o si sa,quanto piuttosto cosa si voglia far pensare di sé, mentre si vuole raggiungere, competendo con altre pari realtà, la grande utenza della rete.
Il focus è spostato dal comunicare contenuti alla cura maniacale che punta al controllo dell’utente e della sua stessa capacità di discernere. Per tutto questo, va cercato in ogni ambiente educativo l’antidoto a tale tendenza, affinché sia garantita la possibilità di ricercare, in contesti dialogici, vis a vis, il recupero delle prospettive critiche. Così facendo sarà possibile ridurre l’esposizione alle nuove ansie digitali e si potrà pensare ancora criticamente.
L’impegno deve andare nella direzione di creare comunità che vogliano e sappiano interrogarsi e soprattutto, intendano porsi in termini differenziati, rispetto alla mole di materiale che viaggia, attraversa e talvolta, sfonda la sensibilità individuale e collettiva.
Nuccia MORSELLI
Psicologa-psicoterapeuta