Un software aiuterà i medici a decidere
Alcuni ricercatori coordinati all’Università Statale di Milano si sono chiesti se fosse possibile aiutare i medici ad evitare maggiormente decisioni e prescrizioni potenzialmente dannose o rischiose nei confronti dei propri pazienti. La risposta è risultata affermativa: tramite un software, un sistema di supporto decisionale computerizzato (SSDC), che trasmette messaggi di allerta e di guida. Questo software è stato testato e i risultati si sono rivelati ottimi. Non tutti i potenziali errori che sono stati corretti hanno avuto esiti diretti sui pazienti, ma le conseguenze di inesattezze possono causare non leggere conseguenze a carico della struttura ospedaliera.
Il programma non è ancora in grado di distinguere tra messaggi rilevanti, capaci di prevenire conseguenze gravi o drammatiche, ed alert meno importanti. Per questo motivo gli SSDC sono strumenti dotati di grande potenziale, ma non ancora efficienti nel discriminare le informazioni ricevute. Questa la spiegazione di Lorenzo Moja, professore associato dell’Università Milanese, che fa intuire i limiti del software, ancora da migliorare.
Parallelamente, è stato studiato un altro sistema, l’Ebmeds (Evidence Based Medicine Decision Support), sviluppato dalla Associazione dei Medici Finlandesi, testato per la prima volta nel 2003, progettato per aiutare a tener traccia delle decisioni mediche. Questa tecnologia è attualmente impiegata in diversi ospedali, allo scopo di ridurre la variabilità delle cure, aumentare la sicurezza per i pazienti e migliorare l’efficacia clinica.
Il quesito che ci si pone però è: perché allora, dati i risultati positivi, questi sistemi non vengono ancora utilizzati in tutti gli ospedali? «Esistono due principali ostacoli», ha dichiarato il Giovanni Delgrossi, responsabile della divisione di Tecnologia dell’Informazione e Comunicazione presso l’Ospedale di Vimercate: «In primo luogo, sono ancora pochi i medici a proprio agio con gli algoritmi che nelle cartelle cliniche elettroniche guidano le opzioni terapeutiche per i propri pazienti. In secondo luogo, le cartelle cliniche in formato digitale sono ancora abbozzi piuttosto caotici di informazioni, che spesso complicano, anziché agevolare, l’integrazione dei dati ospedalieri e dei ‘sistemi di supporto alle decisioni’. Inoltre, di 6.400 pazienti coinvolti, il cambiamento positivo nella terapia è avvenuto in circa 4 pazienti su 100; il dato è statisticamente significativo per alcuni, mentre per altri è modesto o considerevole».
Lo studio, conclude quindi Moja, servirà sicuramente da modello per i futuri studi clinici randomizzati, ma, forse, con lo sviluppo che gli appartiene fino ad ora, non è ancora sufficientemente utile e determinante.
Elena MILETTO